Nella giornata di lunedì 10 gennaio, centinaia di migranti che da settimane stazionano davanti al vecchio ufficio dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati (UNHCR) a Tripoli, hanno subito un raid di arresti da parte delle forze di sicurezza libiche, alcuni sono riusciti a fuggire mentre altri sono stati portati in un centro di detenzione nella vicina città di Ain Zara.
Questa è l’immagine più conforme alla condizione di caos e violazione di diritti che si vive in Libia da anni, come racconta Valeria Anzalone, programme coordinator per INTERSOS in Libia: “Tutte quelle persone accampate sono lì dal mese di settembre, provengono dai centri di detenzione chiusi lo scorso anno e ora non hanno altro posto dove andare”.
Con la cancellazione delle elezioni politiche, anche le speranze di cambiamento in Libia restano in attesa, così come l’1,3 milioni di persone che necessitano di aiuto umanitario, i quasi 200mila sfollati interni e i 610mila migranti e rifugiati nel Paese. I migranti che stazionano in Libia, da anni, sono la fotografia di una questione irrisolta che coinvolge e chiama in causa l’Europa. “Vediamo queste persone da settimane – racconta Anzalone – un vero e proprio accampamento informale, con disagi e degrado che aumenta. Una situazione che sembra non trovare una soluzione. Alcuni di loro sono finiti nei pochi centri di detenzione rimasti aperti o provano a partire imbarcandosi per attraversare il Mediterraneo.” Libia in questi anni significa anche questo, soprattutto questo: vite perse in mare. Oltre 1.800 migranti sono annegati tentando la traversata nel 2021, secondo i dati dell’UNHCR.
Di ipotesi sugli scenari futuri per il Paese ne sono state fatte tante negli ultimi anni, dall’inizio della guerra civile esplosa nel 2014, il cui processo di pace, presunta, è stato avviato solo nel 2020, fino ad arrivare ad oggi, un 2022 che trascina con sé gli strascichi della fine dell’anno precedente, con promesse non mantenute e aspettative violate.
Le elezioni governative previste per il 24 dicembre scorso sono saltate come conseguenza delle continue tensioni tra l’Est e l’Ovest del Paese su candidati, sistema elettorale, influenze territoriali. A pochi giorni dal voto, il processo elettorale che avrebbe dovuto portare stabilità ad un territorio martoriato da anni di guerra civile, è stato sospeso dalla Commissione incaricata e rinviato a data da destinarsi.
Con le elezioni posticipate e la tensione crescente in tutto il territorio, soprattutto nel Sud, l’intervento umanitario delle Ong è diventato più difficile: “A dicembre, quando abbiamo sentito salire la tensione, abbiamo deciso di chiudere per qualche giorno il nostro centro per minori della città di Sabah dove, insieme al centro di Ajdabiya (nell’Est), nel 2021 circa 200 minori non accompagnati hanno ricevuto assistenza psico-sociale”, racconta Anzalone che, proprio in quelle settimane, si trovava a Tripoli. “A ridosso delle elezioni rinviate – continua – ci sono stati episodi critici anche a Tripoli, con schieramenti di militari nelle strade e check point. Al momento non si sono verificati grandi scontri ma si respira aria pesante. Sarà così anche nei prossimi mesi”.
In Libia l’instabilità tocca tutti gli ambiti, dalla sicurezza alla politica, dall’economia alla coesione sociale. “La popolazione vive alla giornata, manca la benzina, l’elettricità è sempre meno e i blackout aumentano. Noi di INTERSOS cerchiamo di portare avanti le attività con dei generatori di corrente ma, a lungo andare, questa carenza di elettricità potrebbe portarci a sospendere le attività nel Paese.”
Nonostante la perenne incertezza, le attività di INTERSOS vanno avanti. “Andiamo avanti sia con la ristrutturazione delle scuole che dei centri di salute e così anche con le attività dei centri per i bambini”. Nell’anno appena terminato, abbiamo assistito circa 1.600 bambini a Tripoli. “Abbiamo distribuito materiale scolastico a 1.500 bambini, facilitato l’iscrizione alla scuola formale per 32 bambini e fornito a circa 300 minori servizi medici di base, come lo screening medico, e condotto campagne di sensibilizzazione sui vaccini per i bambini”.
Il vuoto politico, il caos, l’assenza di sicurezza, le infrastrutture danneggiate durante gli anni della guerra, l’indisponibilità dei servizi di base e la moltitudine di case andate distrutte, sono la fotografia di un Paese che aspetta di ripartire. Quello che fa la differenza, in un contesto simile, è proprio l’intervento umanitario. “Con il nostro team siamo presenti in tutte le aree più complesse del Paese, anche lì dove non c’è quasi nulla in termini di servizi. Nel 2021 abbiamo ristrutturato e rifornito 8 cliniche mediche, 2 scuole e 3 centri professionali” conclude Anzalone.
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Mi chiamo Youssef e sono uno studente. Ho 20 anni e vengo da Al-Bayda, un governatorato dello Yemen. Studio medicina all’Università di Sana’a, questo per me è un privilegio in un paese come lo Yemen, dove il diritto allo studio è spesso negato. Raggiungere questo obiettivo non è stato facile, per me studiare medicina è sempre stato un sogno, ma le poche risorse economiche della mia famiglia e la scarsa offerta formativa del mio Paese, hanno reso il mio percorso più difficile. Nonostante tutto, non ho mai smesso di credere di poter fare la differenza, continuare a sognare un futuro diverso. Vorrei diventare un medico, poter curare più persone possibili che ad oggi non hanno accesso alle cure. Nella mia città natale immagino che un giorno possa esistere un ospedale dove farsi curare possa essere la normalità e non più un diritto di pochi.
Sono Dania Yousef Madi, ho 26 anni e sono Palestinese. Studio ingegneria delle telecomunicazioni.
Le telecomunicazioni sono un campo molto vasto. L’ho scelto perché mi hanno sempre divertito le tecnologie, i segnali. Come sono collegate le chiamate, a quale larghezza di banda operano le aziende, ecc. Ha una buona prospettiva per il futuro, perché, come tutti sappiamo, la tecnologia sta aumentando. E la comunicazione è qualcosa che è molto importante nella vita quotidiana. Quindi, le possibilità non finiranno mai in questo campo
I miei genitori sono divorziati e mia madre era un’insegnante che cercava di prendersi cura di quattro figli, eravamo lontani dall’essere benestanti. L’unico modo che avevo per continuare i miei studi era ottenere la borsa di studio. Questo sostegno finanziario mi ha permesso di rimodellare la mia vita per proseguire meglio i miei studi universitari. Lavoravo mentre studiavo all’università, con la borsa ho potuto ridurre le ore di lavoro e dedicare più tempo allo studio, al completamento dei miei compiti di valutazione e, soprattutto, alla preparazione degli esami. Un grande peso mi è stato tolto dalle spalle grazie alla borsa di studio DAFI. Questa borsa di studio mi ha davvero concesso una seconda possibilità per raggiungere i miei obiettivi e lavorare al massimo delle mie potenzialità
Attualmente lavoro come education officer in INTERSOS e mi sforzo di non smettere mai di imparare e sviluppare le mie capacità, iscrivendomi e frequentando alcuni corsi e conferenze. Il mio sogno è quello di aiutare gli altri a realizzare il loro sogno. Fare qualcosa di prezioso per gli altri. Più in profondità, voglio vivere libera e aiutare gli altri a vivere liberi e appagati. Inoltre, un altro dei miei sogni più grandi è continuare gli studi e fare un master, che è il percorso migliore per lo sviluppo della carriera e un futuro migliore.
Mi chiamo Abd al-Karim Tawfiq Ahmed. Ho 24 anni e sono cresciuto nel governatorato di Al Dhalea, nello Yemen settentrionale. Sono uno studente di medicina al quarto anno presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Sana’a. Ho scelto medicina perché ho un forte interesse e una passione per la scienza, guidati da un innato desiderio di fare il possibile per aiutare le persone che soffrono. E poi la professione medica è una delle più ambite al mondo, competitiva e rispettabile.
Nel corso dei miei studi ho imparato il significato delle parole impegno, perseveranza e diligenza. La borsa di studio di Fondazione Lavazza mi ha aiutato a superare molte sfide, la copertura delle tasse universitarie in primis, che è stata per me una costante fonte di preoccupazione. Inoltre, la borsa di studio è un sostegno essenziale per le spese quotidiane.
Dopo aver ricevuto la borsa di studio di Lavazza, qualcosa è cambiato nel mio approccio e ora ho una visione più positiva della vita. Ho iniziato a studiare col sorriso e mi rendo conto di quanto sono fortunato ad avere avuto questa opportunità. Mi impegno di più con i miei compagni di corso e chiedo ai docenti ogni volta che c’è qualcosa che non capisco. Fin qui studiare non è stato facile, ma continuo a impegnarmi al massimo e spero tutto vada per il meglio, devo credere che sono in grado di diventare un buon medico!
In passato scherzavo sulla possibilità di diventare medico: oggi sono uno studente di medicina al quarto anno e ho ottenuto una borsa di studio che mi permette di credere in un sogno che si sta realizzando, di lavorare sodo, di potermi vestire bene, di avere le risorse per rendermi presentabile e non mollare mai. La borsa di studio ha acceso in me un rinnovato senso di ottimismo, dopo la laurea vorrei continuare il percorso di studi e intraprendere un master.
Mi chiamo Doa’a. Sono nata in Yemen in una famiglia povera.
Il mio futuro sembrava già scritto: una vita di privazioni, di lotta per la sopravvivenza e di sogni sepolti. Ero solo una bambina e già portavo sulle spalle il peso di un contesto particolarmente complesso per le donne a cui spesso viene negata la possibilità di scegliere.
Poi, un giorno, tutto cambiò con la mia determinazione a non accettare un destino già stabilito. Decisi di studiare ed avere un futuro diverso. Con fatica e sacrifici sono riuscita ad iscrivermi alla facoltà di Odontoiatria. Poi è arrivata la borsa di studio che mi sta permettendo di continuare il mio percorso accademico e di avvicinarmi sempre di più al mio obiettivo: diventare una dentista.
Doa’a è una studentessa che rientra nel nostro progetto “Borse di studio per l’istruzione di giovani yemeniti” finanziato da Fondazione Lavazza. La storia di Doa’a è una storia di resilienza e di speranza. A quasi un decennio dall’inizio del conflitto, il nostro intervento in Yemen non ha garantito solo accesso a cure mediche e beni essenziali o protezione per le persone sopravvissute a violenza. Abbiamo sostenuto anche l’istruzione perchè crediamo che l’unico modo per superare i conflitti sia investire nella formazione delle giovani generazioni.
Wael è apolide da quando l’ufficio anagrafico della cittadina in cui viveva è andata in fiamme durante la guerra civile, e ogni registrazione si è perduta. Apolidi sono i suoi cinque figli: i maschi sono imbianchini, pagati a ore in lire libanesi, un compenso eroso continuamente dall’inflazione. La moglie di Wael conduce un negozietto dove vende prodotti per la casa per conto terzo, ma è malata di tumore, non può permettersi le cure necessarie, non riesce ad andare avanti.
Lina è sempre vissuta in Libano, ma non ha mai avuto la cittadinanza del suo paese. Lavora come colf domestica ad ore, aiuta la famiglia, con quello che guadagna e alcune amicizie è riuscita far studiare due delle sue figlie. Sua madre era libanese, suo padre siriano. Quando le chiediamo cosa facesse, ci risponde: “magia nera, leggeva i fondi di caffè”. Come lei, anche i figli di Lina sono ora apolidi.
Salah, druso, ha un fratello e tre sorelle grandi, ma è l’unico apolide della famiglia perché, quando è nato, suo padre era in carcere; e sua madre, costretta a mantenere cinque figli come lavoratrice domestica, non è riuscita a seguire l’iter burocratico. A causa della sua apolidia, Salah ha potuto frequentare solo i primi anni di scuola (sa leggere e scrivere), non ha patente di guida, è costretto a cambiare lavoro ogni tre mesi perché, finito il periodo di prova, nessuno lo può assumere regolarmente. Dieci anni fa, quando si è dovuto operare al naso, si è fatto ricoverare con la tessera sanitaria del fratello.
Qualche mese fa ha sposato una ragazza marocchina conosciuta su Facebook. Dopo otto anni di messaggini via web, è andato a prenderla all’aeroporto, in arrivo dal Marocco, e si sono sposati immediatamente, già nel tragitto di ritorno. Ora lei, incinta, sta per partorire un bambino che, come figlio di apolide, sarà anche lui privo di cittadinanza.
Esther, 29 anni, è arrivata dall’Etiopia dieci anni fa, in cerca di impiego per aiutare la madre malata. Ha trovato solo lavoretti temporanei come collaboratrice domestica, dormendo nelle case dove faceva le pulizie e dovendo fuggire da datori di lavoro che la molestavano. Per migliorare la sua condizione, ha sposato un garagista libanese, sperando di ottenere così la cittadinanza. Ma il marito non ha mai registrato il matrimonio e ben presto si è rivelato un tossicodipendente (le pillole e la polvere bianca in giro per casa non erano farmaci per il mal di denti, come diceva lui). Per di più spacciava ed era molto violento, soprattutto quando lei si rifiutava di fare da corriere per la droga fuori Beirut (per le donne è più facile, perché non vengono perquisite): una volta è arrivato a rinchiuderla per giorni in una stanza, torturandola con bruciature di sigaretta.
Nonostante ciò, Esther ha avuto da lui due figli, ai quali non sono stati mai risparmiati maltrattamenti e botte. Finché un giorno, quando il marito stava per tirarle addosso un pentolone d’acqua bollente, Esther si è messa a gridare così forte da allarmare i vicini, che hanno chiamato la polizia. Lui è finito in carcere, ma per poco tempo. Un’associazione libanese che sostiene donne sopravvissute a violenza ha offerto rifugio a Esther e ai due bambini, rimasti apolidi, perché la loro nascita non è stata mai registrata.
Ora Esther lavora saltuariamente, con l’aiuto di INTERSOS, da cui riceve assistenza materiale e legale. Ha ancora paura di muoversi liberamente e incontrare il marito violento. Vorrebbe tornare in Etiopia, ma la sua famiglia è stata sterminata durante la guerra civile.
Amara è arrivata a Beirut nel 2012 da Addis Abeba, per lavorare come domestica nelle case dei ricchi libanesi. Come per altre decine di migliaia di lavoratrici immigrate, il suo soggiorno in Libano è inquadrato nella Kafala, un sistema di sponsorizzazione che si trasforma spesso in una forma di schiavitù moderna, conferendo a coloro che vi sono intrappolati uno status giuridico precario che impedisce loro di registrare i propri figli di origine libanese.
Amara ha sposato un tassista libanese e ha avuto tre figli: matrimonio religioso, non registrato ufficialmente, perché qualsiasi donna, per sposarsi in Libano, deve dare prove documentali di essere nubile. E come poteva Amara dimostrare di non essersi già sposata in Etiopia prima di partire? Per questo, benché il padre abbia riconosciuto i tre figli e sposato la madre con rito religioso, non può registrare all’anagrafe i bambini, che sono rimasti apolidi.
Ritratto di Mais Hameed, sfollata dalla zona di Al Zab: “Vivo da 6 anni nel campo di Jeddah, perché non sono stata accolta nella mia zona di origine. La mia famiglia è accusata di affiliazione all’Isis, mio marito è in carcere, e se torno nella nostra zona di origine verrò arrestata, come hanno già fatto, davanti a me, con le mogli di due miei fratelli, quindi non voglio rischiare di tornare indietro. Mia madre ha il cancro, e se tornasse nella nostra zona di origine, verrebbe anche lei arrestata. Non ho mai lasciato la mia zona finché non siamo stati liberati e non c’erano più membri dell’ISIS. L’esercito è arrivato e sono dovuta andare via di casa. Ho iniziato a camminare e ho continuato a camminare, perché le persone che guidavano le auto non avrebbero accettato di prendermi a bordo, fino a quando non sono arrivata al campo di Jeddah 5. Ho quattro figli. Mio figlio maggiore ha 13 anni e lavora a cottimo. La mia seconda figlia ha 11 anni, la terza ha 8 anni e la mia quarta figlia ha 6 anni. Nessuno di loro ha documenti legali. I miei figli non hanno futuro. Prima dell’Isis la vita era bella, non ci preoccupavamo di niente, ma ora siamo stanchi e stiamo cadendo a pezzi”.
Iraq, Baiji. Ritratto di Thaer Khaleel Sahan: “Nel 2014 quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostruirla com’era prima quindi la lasciamo così com’è”.
Iraq, Rabia. Ritratto di Khalid Rabash Kanush. “Ho 60 anni. Sono uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia. Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciale e l’istruzione”.
Ritratto di Khamis Hsein Salah. “Dopo 5 mesi in un campo, senza lavorare, siamo tornati al villaggio di Mthallath per cercare un lavoro. Lavoriamo nell’agricoltura. La mia casa è stata bruciata e non ho soldi per ricostruirla. Sono ancora un migrante non per la guerra ma per le cattive condizioni di vita. Non c’è modo di guadagnarsi da vivere nel villaggio e siamo nella stessa situazione da anni. Lavoro in questo terreno agricolo per mio cugino, non ho altro supporto. Abbiamo bisogno di stipendi, compensi per le nostre case e un centro sanitario nel villaggio. Non ci sono strade asfaltate nel paese, tutti i 7 km di strade sono in sabbia. Quando mio figlio si ammala, non posso portarlo dal dottore”.