La guerra nel Sud del Libano, al confine con Israele, ha causato circa 95 mila sfollati interni, che si sono dovuti rifugiare in aree più sicure del Paese. Anche i nostri operatori umanitari sono fuggiti dai loro villaggi dove si combatte quotidianamente e si trovano ora a vivere gli stessi traumi delle persone che ogni giorno assistono. Questa è la storia di una di loro.

 

Quando sono diventata un’operatrice umanitaria non pensavo che un giorno mi sarei potuta trovare dall’altra parte, che il ruolo di sfollata sarebbe toccato a me.

Per quanto puoi cercare di empatizzare, di metterti nelle scarpe di qualcuno, quando sei tu a dover lasciare la tua casa è tutto diverso. Durante lo sfollamento, per la prima volta ho sentito di non essere parte della comunità e di colpo hanno iniziato a trattarmi come trattano una rifugiata non desiderata. Ho dovuto affrontare molestie verbali da parte di molte persone, alcuni si sono rifiutati di lasciarmi affittare la casa prima di accertarsi che avessi un documento d’identità e che fossi libanese e, quando mi presento e dico che vengo dal sud del Libano, alcuni assumono un atteggiamento diffidente, perché hanno paura che possa essere affiliata a qualche partito politico.

Ho lasciato il mio villaggio da sola con i miei due figli. Mio marito, insieme ad altri uomini del villaggio, è rimasto a Sud a fare da guardia alle case, per evitare che qualcuno potesse saccheggiarle o usarle come nascondiglio. Essere una mamma lavoratrice sola è una sfida continua, mi sento responsabile di tutto e sono costantemente preoccupata: penso a mio marito che è rimasto al sud, penso che a un certo punto i soldi potrebbero non bastare, penso a come possano sentirsi infelici i miei figli. Tutti i giorni vedo i bambini del palazzo andare a scuola, mentre i miei devono restare a casa senza far niente. Andare a scuola è un loro diritto.

I primi tempi, ogni settimana prenotavo un appartamento diverso, in tre mesi ho traslocato 14 volte. Ho cercato di trovare un lato positivo: dato che eravamo costretti a spostarci così spesso, ho pensato di cogliere l’occasione per scoprire nuove zone e così ho organizzato delle piccole visite turistiche, per me e per i miei figli, ma i pensieri negativi, alla fine, prendevano comunque sempre il sopravvento.

Faccio i conti tutti i giorni con la diffidenza della gente, ma ho notato che alcune persone sono diverse, mostrano il loro sostegno alle persone sfollate. Una volta è capitato che dovessi lasciare una casa entro le 11.00 e non ero riuscita a trovarne subito un’altra, così sono andata al parco giochi per far giocare i miei figli fino a quando non avessi finito di lavorare. Il parco era chiuso, ma ho raccontato la nostra storia alle persone che stavano facendo le pulizie e loro ci hanno permesso di rimanere lì fino a tardo pomeriggio.

 

Intanto a casa…

 

Nel mio villaggio il 70% delle famiglie sono sfollate. Il restante 30% è composto dagli uomini che sorvegliano il villaggio e da quelle poche famiglie che, non potendo permettersi un affitto o di perdere il proprio lavoro, sono rimaste.

Le famiglie che sono rimaste si affidano alle distribuzioni di cibo e alle donazioni delle persone con una migliore situazione economica. Manca di tutto, dalle medicine per le persone anziane al latte artificiale per i neonati. Le donne incinte hanno paura di non poter raggiungere l’ospedale e addirittura che l’ospedale venga bombardato, ora che quello di Bint Jbeil è stato destinato alla cura dei feriti di guerra. Per sopravvivere alla situazione, la comunità è diventata più solidale che mai; c’è un unico obiettivo: la sicurezza del villaggio e delle persone che sono rimaste.