Come può un paese in guerra, con ospedali e sale operatorie piene di feriti di arma da fuoco, potersi occupare, soccorrere e curare pazienti affetti da COVID-19?

 

In Libia questo è un quesito che incute timore e inibisce una qualsiasi risposta.
Il conflitto in corso, iniziato 14 mesi fa (il 3 aprile del 2019) con l’avanzata del generale Khalīfa Belqāsim Ḥaftar contro il governo di Al-Sarraj, ha raggiunto nelle ultime settimane livelli di escalation mai visti prima. Haftar sta perdendo terreno e la risposta del GNA (Government of National Accord) si è intensificata ulteriormente nella periferia di Tripoli, lanciando sempre più attacchi per riprendere territori persi in precedenza.

Ad ovest avanza l’esercito di Fayez Al-Sarraj, si avvicina gradualmente verso la frontiera con la Tunisia. Dopo aver riconquistato i campi di Yarmouk, al Sawarikh e Hamza a sud di Tripoli, zona contesa tra le due fazioni in campo, un prossimo obiettivo potrebbe essere quello di Tarhuna, principale centro operativo dell’esercito di Haftar nell’Ovest del paese.

Nelle ultime settimane di maggio anche i migranti presenti sul territorio libico hanno rischiato la vita a causa del conflitto in atto. Tra gli ultimi episodi, un vero e proprio massacro si è consumato all’interno di un magazzino ritrovo di sfollati interni nella località di Mezda, a pochi chilometri dalla città di Gharyan, a sud di Tripoli, al momento della sparatoria, erano presenti circa 200 stranieri.

In Libia i rifugiati e i migranti hanno spesso problemi di protezione conseguenti alle gravi violazioni dei diritti umani e abusi da parte di attori statali e non statali, sono persone con status irregolare e questo, anche in mancanza di reti di sostegno interno, agevola i tanti crimini commessi contro di loro. Sono cittadini stranieri vittime di razzismo e xenofobia frutto anche delle politiche legate al controllo dei flussi migratori verso l’Europa.

“Il pericolo COVID-19 al momento sembra non essere esploso, con quasi 200 casi confermati e 5 decessi, i numeri sembrano contenuti”, racconta Pietro De Nicolai capo missione INTERSOS Libia, “Questo però non è indicativo di una realtà stabile dove poter operare anche a livello umanitario. Il rischio contagio è più che mai elevato in un paese dove la popolazione convive con il conflitto da troppo tempo e le misure di prevenzione passano in secondo piano rispetto alla paura di un bombardamento istantaneo”. Nell’ultima settimana nella sola località di Sebah sono stati accertati 80 nuovi contagi, un terzo del numero totale.

Si stima che quasi 1 milione di persone, tra cui circa centinaia di bambini, abbiano bisogno di assistenza umanitaria in Libia a causa della persistente instabilità politica, del conflitto e dell’insicurezza, figlie dell’inesistenza dello stato di diritto, del deterioramento del settore pubblico e di un’economia instabile. Questa cifra raccoglie persone con vite di ogni tipo, ci sono gli sfollati interni, i rimpatriati, i cittadini libici nonché i rifugiati e i migranti.

Le attività di INTERSOS, iniziate nell’aprile del 2019, hanno subìto un forte rallentamento a causa di tre distinti ma complementari fattori:
– la sicurezza: come conseguenza del costante conflitto in corso
– il periodo del Ramadan – ora terminato – ma che ha inciso sulla diminuzione del livello di attività sul campo
– le restrizioni imposte come prevenzione al rischio diffusione del COVID-19 (coprifuoco che può raggiungere anche le 24h su 24 per 10 giorni nella zona di Sebah e di 12 h in quella di Tripoli), elemento che incide fortemente sulla possibilità di muoversi nel territorio libico.

“Nonostante la guerra, il COVID-19 e le difficoltà di spostarsi sul territorio, noi non abbiamo mai smesso di esserci e di portare avanti le nostre attività a Tripoli”, dice Pietro, “In risposta all’impossibilità di tenere aperto il centro “Baity”, che accoglie minori libici e migranti, abbiamo avviato un progetto di lezioni a distanza con i ragazzi e le ragazze che per mesi hanno preso parte ai percorsi di formazione e creatività del centro. Era ed è necessario continuare quello che abbiamo iniziato insieme, soprattutto in un momento storico come questo”.

Oltre alle lezioni di francese, inglese, matematica e altre materie, INTERSOS ha avviato iniziative on-line di supporto psico-sociale per alcuni casi specifici.
Si tratta di minori che hanno alle spalle una vita complessa e troppo pesante per la loro giovane età, che necessitano di un sostegno e soprattutto di protezione.
Oltre alle lezioni a distanza, proseguono anche le distribuzioni di materiale scolastico per i minori del centro “Baity” di Tripoli mentre si continua anche la costruzione del secondo centro ubicato nella località rurale di Shebah dove il coprifuoco è stato rafforzato e l’apertura delle scuole potrebbe essere ritardata.

INTERSOS sta verificando insieme alle autorità le possibili conseguenze sulla riapertura del centro “Baity” di Tripoli e, se necessario, procederà con la prosecuzione del lavoro a distanza come è stato condotto fino ad ora. Nonostante tutto, nonostante la guerra.

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