Tra le cliniche di INTERSOS nell’area rurale del sud dell’Afghanistan un piccolo gesto di affetto, per quanto ordinario, può essere dirompente. Guglielmo, operatore di INTERSOS attualmente in Giordania insieme al figlio Sami e alla compagna Elena, ci racconta dell’incontro in Afghanistan che ha ispirato il suo essere papà. 

 

Nella testa mi suona ancora la risata nervosa e accesa di Elena, in sottofondo le note della canzone di Truppi con cui aveva cantato attraverso un telefono l’attesa totalmente inaspettata del nostro primo bimbo. Il mio silenzio impastato di sorpresa, paura ed eccitazione.

Abbiamo trovato il primo argomento capace di ammutolirti Nino, touché!”.

Lavoravo come responsabile dei progetti umanitari di INTERSOS in Afghanistan e avevo appena scoperto che, di lì a qualche mese, anche i miei palmi si sarebbero persi in quelli di un’altra misura, minuscole e piene di fare; ne avrebbero seguito gli intrecci e le linee, ci sarebbero cresciuti insieme.

La jeep prosegue indifferente srotolando i chilometri tra le strade bucherellate della provincia di Zabul, mentre le mie pupille si perdono in quelle di ogni padre e figlio al di là del finestrino leggermente aperto, nei loro gesti di mestiere e fatica, nelle mani di misure diverse aperte su un fare senza età. Sullo sfondo scorre il deserto di sassi macchiato dai ciuffi di mandorlo appena ingrigiti dall’inverno. Sulla fronte il soffio del primo freddo afgano. In bocca l’odore delle bancarelle coperte di fichi secchi raccolti in collane e i sacchi di iuta indiana gonfi di spezie colorate.

Arrivati al centro di salute di Bakorzai, in un angolo dell’ambulatorio femminile vedo una stufa a gas accesa su un fascio di coperte e lenzuoli. Sull’orizzonte del batuffolo colorato sbuca la punta di un naso leggermente disegnato e la linea di due ciglia placidamente chiuse, ispessite dall’ombra scura del kajal, il colorante naturale applicato in tutta l’Asia centrale sugli occhi dei neonati come buon auspicio e protezione dal sole cocente.

La mamma è seduta dietro la scrivania delle consultazioni. Intorno a lei il personale medico, con il camice bianco stropicciato dall’uso quotidiano e lo stetoscopio appeso attorno al collo. Non bada ai leggeri movimenti di sonno che muovono le coperte a qualche metro di distanza. Il susseguirsi delle pazienti al di là del tendino blu di divisione la tiene impegnata senza sosta.

In un raro momento di calma nel mezzo del via-vai dell’ambulatorio, in silenzio, fa capolino nella stanza di fango e paglia un uomo di mezza età in abito lungo pashtun e palandrana di lana stretta sulle spalle. Alla sua vista le pazienti ancora in attesa buttano giù i lembi dei burka blu per coprirsi il viso. Con passi lenti si avvicina al piccolo neonato, tasta la coperta per sentirne il calore. Fa scivolare una piccola carezza all’altezza dei piedi e poi torna a sedersi nelle panchine del cortile destinate al reparto maschile.

Lascio andare avanti i colleghi che proseguono la visita di monitoraggio e resto con le pupille molli a guardare l’involucro di coperte su cui è rimasto il segno leggero della carezza del papà. Giro di poco lo sguardo e sorrido appena alla dottoressa nascosta al di là del separè color cielo. Lei non mi vede, gli occhi sono di nuovo immersi nel ritmo frenetico delle visite dopo i secondi di pausa concessi al marito per dare un saluto di cura al bambino.

Resto sospeso a riflettere sulla normalità e straordinarietà di quel gesto, sulle mani delicate di un padre che si aprono tra i risvolti della coperta nonostante il mondo intorno gridi un mantra opposto, sui suoi occhi scuri che in silenzio guardano al di là dei confini stretti di una società in cui all’uomo è concessa la sola durezza del lavoro, quasi mai la delicatezza della vita familiare.

A distanza di un anno e più ammetto che non ricordo il nome di quel papà, e nemmeno del suo bambino. Adesso che ci ripenso, la forma delle sue mani si confonde con quella di centinaia di altre mani di papà incontrate nei mesi a seguire.

Quello che però ricordo in maniera nitida, ora che le mie di mani sono strette tra quelle soffici e vivaci di mio figlio, è di aver pensato che qualsiasi strada mi avrebbe portato a percorrere l’essere genitore, avrei preso quei secondi di affetto ordinario e ribelle come simbolo del mio essere papà.

Ora, in Giordania, al fianco delle popolazioni rifugiate insieme ad INTERSOS, tra centinaia di altri figli simili al mio piccolo Sami ed eppure così lontani nei passati di violenza che portano scritti addosso, continuo a sentire il peso leggero di quell’esempio dirompente e la volontà di portarlo appresso come un insegnamento muto, da rinnovare in ogni istante di uomo e genitore.

Oggi, in occasione della Festa del papà, l’augurio è che le mani del papà pashtun, capaci di scardinare lo stigma della sensibilità maschile con l’ordinarietà dell’affetto, si facciano ispirazione ovunque di una rivoluzione lenta e necessaria.

La rivoluzione dei papà portatori naturali di cura e presenza. Nonostante gli occhi intorno troppo spesso gridino il contrario.

Io comincio da qui, Sami.