Alice Pistolesi, giornalista che ha visitato il Paese insieme a INTERSOS, racconta il viaggio dei caminantes che, per fuggire dal Venezuela, passano la frontiera attraverso le trochas.

Intervista di Stefano Bocconetti

 

 

Ha scelto di raccontare i disperati. Va nei posti, s’informa, vede. E scrive. Testi che diventano denunce. Alice Pistolesi è una giornalista, di quelle che non si “accontentano dei dispacci di agenzia”, collabora continuativamente con l’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo e ha recentemente ricevuto il premio cronista toscana organizzato a Vinci. È appena rientrata dalla Colombia. È andata al confine col Venezuela, in quelle zone dove non sembra più esserci l’autorità dello Stato, spesso in balia dei tanti gruppi armati che non fanno più distinzione fra narcotraffico e terrorismo. Lì dove sono arrivate e arrivano, si fermano, provano a ripartire cinque milioni di persone. Tanti sono stati e sono i profughi da otto anni a questa parte.

 

E lì?

 

“E lì ho visto un flusso costante di persone. In fuga da tutto: guerra ma soprattutto fame e violenze. Un flusso a volte tumultuoso, a volte carsico ma costante. Chi ha documenti e qualche moneta attraversa il ponte Bolivar, nei momenti nei quali il governo venezuelano allenta i controlli alle frontiere. Altrimenti si passa attraverso le trochas, le vie illegali”.

 

Perché si chiamano così?

 

“Perché molti di quelli che provano ad entrare clandestinamente lo fanno attraverso percorsi costruiti coi tronchi, trochas, sul fiume Arauca che divide i due Paesi”.

 

Di là cosa trovano?

 

“Ho parlato con tantissime persone. È difficile dirlo ma sentendo i loro racconti, guardando la gente accampata alla periferia di Cucuta ti accorgi che spesso, quelle migliaia di persone trovano la stessa situazione che avevano lasciato. Tranne piccole isole di solidarietà”.

 

Ecco, appunto: la solidarietà. Chiunque abbia letto i tuoi reportage sull’Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo (si trovano qui) ha saputo dei primi servizi di emergenza, come l’Espacio de Apoyo, appena superato il ponte Bolivar, o quei piccoli ma forse decisivi “punti di sostegno” che si trovano sulla strada dei “caminantes”. Quella strada che costeggia la Cordillera Orientale percorsa a piedi da centinaia di persone ogni settimana che non hanno altro che le proprie scarpe. Oppure il Centro de Esperanza, dove la comunità locale – anche qui sostenuta da INTERSOS – prova a strappare le bambine dalla strada, dalla prostituzione. Ed anche – perché non dirlo? – da matrimoni combinati da una cultura machista imperante. Tante iniziative, tanti progetti, alcuni rischiosi: come l’arrivo, ad ottobre, della prima carovana di mezzi nel Catatumbo, quella Regione alle spalle di Cucuta dove la legge la fanno i mitra: ma c’è una cosa che ti ha colpito più delle altre? C’è un elemento che caratterizza queste missioni in Colombia?

 

“Ogni tragedia, ogni emergenza umanitaria ha caratteristiche che la fanno simile ma diversa dalle altre. Però forse sì, c’è una cosa che mi ha colpito…”

 

Quale?

 

“L’attenzione ad evitare uno scontro fra poveri, l’attenzione ad intervenire verso chiunque abbia bisogno. Penso al centro Princesas Guerreras, a due passi da Villa Rosario, dove INTERSOS è la sola organizzazione internazionale a dare una mano. Qui hanno costruito un progetto ambizioso: provare a dare un futuro alle bambine. Cominciando col dare loro un presente normale, fatto di scuola, amicizia, sostegno. Bene, il centro è per tutte: bambine venezuelane e loro coetanee colombiane. E lo stesso vale per tante altre iniziative. Le condizioni di vita in questa parte della Colombia sono difficili per tutti. E sostenere chiunque abbia bisogno, senza andare a vedere da dove arrivi, è una delle chiavi per affermare la solidarietà. Certo, episodi di xenofobia non mancano – e sarebbe sorprendente il contrario – ma si lavora costantemente per eliminarli alla radice. Fino ad arrivare alle piccole storie che magari mai nessuno conoscerà ma che sono commoventi”.

 

Per esempio?

 

“La casa di donna Yaneth, per dirtene una. Una casa umile, semplice. Lei, la proprietaria, donna Yaneth appunto, l’ha trasformata – col sostegno di INTERSOS – in un micro centro di accoglienza per i fratelli venezuelani, come li definisce lei stessa. Può dare conforto, una doccia, un pasto a venti persone alla volta”.

 

Una goccia nel mare. Ma conta. Conta molto.

 

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