Abbiamo chiesto ai nostri colleghi che lavorano a Foggia di raccontare questo grande insediamento informale, la città non città che d’estate, in occasione della raccolta del pomodoro, conta circa 3mila abitanti.
“Borgo Mezzanone è persone, animali, case e negozi, container per l’acqua, rifiuti non smaltiti, macchine, biciclette e motorini, strade e baracche. Non è un luogo statico, bensì un luogo in continua trasformazione. Le persone vanno e vengono, seguendo per lo più la stagionalità del lavoro. Alcuni restano, e per loro Borgo Mezzanone diventa casa.”, racconta Francesca Rubiolo, dottoressa che da un anno e mezzo fa parte del team di INTERSOS a Foggia.
Il primo impatto con questo “ghetto” pugliese, uno dei più grandi insediamenti informali di braccianti presenti in Italia, restituisce prevalentemente l’immagine cupa dei rifiuti accumulati e l’odore forte della plastica bruciata, ma Borgo Mezzanone è molto di più: è un luogo pieno di contraddizioni, difficile da descrivere in maniera esaustiva anche per chi, come noi, ci lavora tutti i giorni. È un binario morto del percorso migratorio, è un esempio del fallimento delle politiche degli ultimi 30 anni in tema di immigrazione. È una bomba a orologeria.
L’insediamento informale di Borgo Mezzanone si trova nelle campagne pugliesi, tra comuni di Manfredonia e Foggia. Sorge esattamente nell’area di un ex aeroporto militare poi convertito, nel 2005, in un centro di accoglienza per richiedenti asilo (CARA). Fuori dal perimetro recintato del Centro si è formato nel tempo un enorme insediamento informale che conta, durante la stagione estiva, circa 3mila abitanti, per la maggior parte braccianti agricoli che raggiungono la Puglia per la raccolta del pomodoro.
Nonostante questa “città non città” sia qui da più di vent’anni, non sono in tanti a conoscerla. E chi ne ha sentito parlare, lo ha fatto quando è arrivata alle cronache per lo più per gli incidenti e gli incendi delle baracche costati anche la vita a chi ci abitava.
“Ai margini della linea immaginaria del confine tra i due Comuni, sorgono centinaia di container, baracche in lamiera, in plastica, in legno e in muratura. Sono lì da anni e continuano a trasformarsi, a crescere e moltiplicarsi. Se ne vendono, se ne fittano, qualcuna brucia insieme ai suoi abitanti per poi venir ricostruita, si svuotano e sovrappopolano a seconda della stagione, in un ciclo continuo.”, racconta Daniela Campo, infermiera di INTERSOS che ogni giorno raggiunge l’ex pista con la clinica mobile. “Un quartiere di periferia che fa più abitanti del borgo adiacente, privo però dei servizi essenziali: l’elettricità è ottenuta attraverso generatori autonomi o allacci di fortuna con cavi scoperti che intercettano la corrente pubblica, formando disordinate ragnatele nere che sovrastano l’intera baraccopoli. Non esiste una rete fognaria, la maggior parte delle baracche non ha un bagno. E non esiste un sistema di raccolta dei rifiuti. Così l’immondizia si accumula andando a modificare la fisionomia del luogo, con il contributo di qualche camion che nella notte viene a scaricare qua rifiuti di ignota provenienza. Le fumate nere che spesso si levano dai vari angoli della pista non sono altro che la “soluzione” facile al problema. Un luogo di esclusione e reclusione, di segregazione e separazione, di indigenza e che offre scarse possibilità di emancipazione, un luogo dove non arriva il diritto. Ma questo luogo per molti è la dimora, la casa.”
Borgo Mezzanone è però anche necessità che si fa virtù.
“L’ex-pista rappresenta un luogo di aggregazione funzionale – spiega ancora Daniela – uno dei pochi su un territorio ostile, dove si creano reti di socialità e di solidarietà intercomunitaria. Un micromondo dove vengono tenute in vita le diverse culture di appartenenza, attraverso i dialetti, la cucina, le preghiere, la musica, la medicina tradizionale, le tecniche di sopravvivenza maturate in luoghi dove il benessere ha una forma molto diversa da come la intendiamo noi. Fra i vicoli dell’insediamento c’è una vita che pullula: ci sono spacci alimentari, autofficine, barbieri, ristoranti, macellai e venditori di capi di abbigliamento usato, ci sono locali per giocare, chiacchierare, ballare, consumare”.
“Quando ci arrivi per la prima volta, vedi un posto dove non credi possa esistere dignità”, dice Francesca Palazzo, operatrice sociale, arrivata a Foggia nel 2022.
Poi vedi le persone: uomini e donne (queste ultime sono solo il 10% degli abitanti del ghetto) che tornano stanchi e sporchi dal lavoro, che scambiano tra loro chiacchiere e risate. Giri tra le baracche e trovi la dignità di questa gente che ha costruito qui la propria casa nonostante le scarse condizioni igieniche e i soli materiali di scarto a disposizione. Case accoglienti dove ti invitano ad entrare per bere dell’acqua e riposarti. Trovi la dignità nelle attività che hanno creato, ristoranti, mercati e bar. La trovi negli sguardi fieri di uomini e donne che a testa alta camminano tra le strade sporche e maleodoranti e ti salutano sorridenti. Tutto il brutto resta, e si aggiunge lo sfruttamento in tutte le sue forme. Ma capisci perché molta gente resta, fa fatica ad andar via o ritorna. La pista rappresenta una comunità, un punto di riferimento. un posto che ti accoglie a prescindere dal tuo passato o dalla tua nazionalità”.
A Borgo Mezzanone si può trovare di tutto, ci sono quasi tutti i servizi adattati al contesto. Ma rimane un luogo di privazione.
“E poiché la maniera più istintiva di reagire alla privazione è l’abuso, il principale modo per respingere la miseria diventa l’alienazione o la sopraffazione. Si consuma di tutto e a basso costo. Si consuma alcool, droga, sesso”, spiega la nostra infermiera, Daniela Campo. “E così questo si trasforma spesso e facilmente anche in un luogo di disagio e violenza. Perché, se la rete esiste, c’è anche chi nelle sue maglie rimane intrappolato. E come sempre, le prime vittime sono le stesse che troviamo nell’impeccabile mondo esterno, ovvero i gruppi tradizionalmente discriminati: donne, persone LGBTQI+, persone con disabilità fisiche o con problemi di salute mentale.”
In questo contesto l’unità mobile di INTERSOS lavora dal 2018 cercando di fornire supporto alle tante persone che per un motivo o per l’altro si trovano a vivere qui in maniera stabile o temporanea. Persone che ogni estate, tutti i giorni, lavorano nei campi in condizioni di sfruttamento estremo per fare arrivare nei nostri supermercati la salsa di pomodoro a basso costo.
“Noi da qui non li vediamo mentre lavorano, ma li incontriamo a fine giornata, al rientro, dopo le lunghe giornate di lavoro nei campi, mentre camminano in fila lungo il percorso sterrato che dalla strada statale porta all’insediamento”, racconta lo staff della clinica mobile. “Alcuni arrivano in macchina, altri vengono fatti scendere al volo da furgoni bianchi che poi corrono via. Spesso passano da noi in clinica mobile, ancora con indosso gli impermeabili e gli stivali di gomma, le divise da lavoro. Hanno ferite aperte causate dagli attrezzi di lavoro, occhi gonfi e lacrimanti a causa di una qualche allergia stagionale o dolori diffusi al corpo, alla schiena, alle gambe. Se non ci fossimo noi lì, a due passi da casa, pochi di loro si rivolgerebbero al medico o andrebbero in ospedale a farsi medicare le ferite, piuttosto cercherebbero di tamponare i danni con qualche metodo casalingo. La clinica in questi casi rappresenta la maniera più rapida per ottenere un sollievo momentaneo.”