
A sostegno di questa iniziativa, le missioni INTERSOS hanno organizzato attività specifiche di sensibilizzazione sui diritti delle donne, l’empowerment femminile, la parità di genere e la violenza di genere.
Durante i 16 giorni di attuazione della campagna, la missione INTERSOS Libia ha organizzato attività supplementari nell’ambito delle regolari sessioni di sensibilizzazione presso Baity Centre a Tripoli, in particolare per ragazze e ragazzi di età compresa tra i 13 e i 18 anni e per le donne sopra i 18 anni. Le attività di sensibilizzazione sono state condotte scrivendo messaggi contro la violenza di genere (“Il silenzio permette la violenza”, “Mai colpa sua”, “Siamo più forti insieme”) su palloncini arancioni, attività seguita da una discussione sull’argomento. Sono state anche organizzate lezioni sulla violenza di genere e sulle leggi esistenti, concentrandosi sulla violenza domestica e sui fornitori di servizi specializzati per questi casi, seguite da sopravvissute che hanno condiviso le loro storie. Un’ulteriore sessione è stata dedicata all’empowerment delle donne e alla parità di genere come fattori sociali essenziali che sono considerati fondamentali per una società come, ad esempio, la disponibilità di cibo, vestiti, alloggio, strutture sanitarie e istruzione per tutti e tutte.
INTERSOS Iraq ha organizzato attività per commemorare i 16 giorni di attivismo contro la violenza di genere in tutte le sedi dei progetti di protezione. Sono state organizzate sessioni di sensibilizzazione per le persone assistite e per il personale sull’uguaglianza di genere, sulla violenza di genere, in particolare sui matrimoni precoci e sulla violenza domestica, e sui diritti umani. Le sessioni di sensibilizzazione sono state adattate alle diverse fasce di popolazione e di età, comprese le sessioni per uomini e ragazzi per combattere le credenze conservatrici sulla violenza di genere. In alcune località, le sessioni di sensibilizzazione sono state abbinate alla distribuzione di dignity kit a donne e ragazze. INTERSOS ha anche organizzato concorsi artistici in cui i partecipanti hanno presentato dipinti e disegni sulla violenza di genere e su come essa influisce sulla loro comunità. Tutte le attività sono state intraprese rispettando le norme per la limitazione della diffusione del COVID-19.
INTERSOS Nigeria ha lanciato la campagna internazionale contro la violenza di genere il 25 dicembre 2020 in tutte le sue aree di intervento. Diverse attività sono state organizzate, a seguito di sessioni di consultazione con le persone interessate e valutazioni partecipative, al fine di garantire la fattibilità e l’appropriatezza culturale delle attività. Particolare enfasi è stata posta sulla partecipazione di persone con disabilità e sull’impegno dei leader delle comunità insieme a uomini e ragazzi per promuovere il loro ruolo di agenti di cambiamento. Le attività previste comprendevano campagne di sensibilizzazione, attività di arti espressive (spettacoli teatrali interattivi, canto, ecc.), attività sportive ed esposizione di prodotti artigianali realizzati dai clienti dei Women and Girls Friendly Spaces (WGFS) con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza sulla violenza di genere, le sue cause e i servizi disponibili per le sopravvissute e i gruppi a rischio.
Il Burkina Faso è un paese che sta vivendo una crisi che colpisce in particolare le donne, che insieme ai bambini costituiscono l’84% degli sfollati. Le donne e le ragazze sono più che mai esposte a varie forme di violenza di genere, comprese le pratiche dannose. In questa situazione di estrema insicurezza, l’equipe di INTERSOS ha portato a termine i 16 giorni di attivismo contro la violenze di genere nelle quattro regioni d’azione: la Regione dell’Est, del Nord, Boucle de Mouhoun e Plateau Centrale. Il programma ha compreso numerose attività rivolte sia alle donne, ma anche ai leader comunitari e tutta la comunità, per poter sensibilizzare il maggior numero di persone su questo tema così delicato. Durante queste giornate INTERSOS ha organizzato trasmissioni dalle radio locali per poter parlare del fenomeno del matrimonio precoce. Infatti in Burkina Faso, nonostante le modifiche legislative che stabiliscono l’età legale del matrimonio a 18 anni, il 10% delle donne si sposa prima dei 15 anni e il 52% prima dei 18 anni. Inoltre sono stati organizzati dei match di football tra l’equipe INTERSOS e gli sfollati, per poter donare un momento di sollievo e allo stesso tempo per poter parlare delle violenze di genere. Inoltre nelle scuole, sono stati proiettati film a tema sulla violenza di genere per poterne parlare anche con gli adolescenti e poter così sensibilizzarli. INTERSOS ha distribuito dignity kit alle donne più vulnerabili, costituiti da materiale per l’igiene personale. Per concludere, si sono anche tenute delle sessioni comunitarie a tema Handicap e violenza di genere, per focalizzarsi su dei temi che sono spesso tralasciati per la troppa specificità. Queste sessioni sono state accompagnate da attività ricreative, caratterizzate da balli e danze, per far sì che le donne potessero svagarsi e socializzare.
In Yemen, INTERSOS e UNHCR hanno organizzato insieme una campagna a sostegno delle 16 Giornate di attivismo contro la violenza di genere. Sotto il tema globale “Orange the world: Fund, Respond, Prevent, Collect“, la campagna ha sostenuto l’appello mondiale a porre fine alla violenza contro le donne, esortando alla sicurezza e alla dignità per perseguire una realtà migliore per le donne e le ragazze. La campagna si è svolta all’interno del programma di protezione di INTERSOS per i rifugiati e gli Yemeniti colpiti dal conflitto nel Sud dello Yemen. Le vite e i mezzi di sussistenza di donne e ragazze sono stati fortemente colpiti dal COVID-19, aggravando la loro vulnerabilità socio-economica come rifugiate o sfollate interne. INTERSOS offre corsi di formazione per l’integrazione socio-economica delle donne e delle ragazze a rischio e delle sopravvissute alla violenza di genere per migliorare la loro capacità di recupero e prevenire la dipendenza a lungo termine dagli aiuti. Dieci donne che hanno partecipato alle sessioni di formazione (5 rifugiate e 5 sfollate) sono state invitate a partecipare a una delle attività della campagna, mostrando le competenze acquisite e vendendo i loro prodotti in un bazar artigianale tenutosi in un popolare centro commerciale di Dar Sa’ad ad Aden.
[gravityform id=”13″ title=”true” description=”true”]
Mi chiamo Youssef e sono uno studente. Ho 20 anni e vengo da Al-Bayda, un governatorato dello Yemen. Studio medicina all’Università di Sana’a, questo per me è un privilegio in un paese come lo Yemen, dove il diritto allo studio è spesso negato. Raggiungere questo obiettivo non è stato facile, per me studiare medicina è sempre stato un sogno, ma le poche risorse economiche della mia famiglia e la scarsa offerta formativa del mio Paese, hanno reso il mio percorso più difficile. Nonostante tutto, non ho mai smesso di credere di poter fare la differenza, continuare a sognare un futuro diverso. Vorrei diventare un medico, poter curare più persone possibili che ad oggi non hanno accesso alle cure. Nella mia città natale immagino che un giorno possa esistere un ospedale dove farsi curare possa essere la normalità e non più un diritto di pochi.
Sono Dania Yousef Madi, ho 26 anni e sono Palestinese. Studio ingegneria delle telecomunicazioni.
Le telecomunicazioni sono un campo molto vasto. L’ho scelto perché mi hanno sempre divertito le tecnologie, i segnali. Come sono collegate le chiamate, a quale larghezza di banda operano le aziende, ecc. Ha una buona prospettiva per il futuro, perché, come tutti sappiamo, la tecnologia sta aumentando. E la comunicazione è qualcosa che è molto importante nella vita quotidiana. Quindi, le possibilità non finiranno mai in questo campo
I miei genitori sono divorziati e mia madre era un’insegnante che cercava di prendersi cura di quattro figli, eravamo lontani dall’essere benestanti. L’unico modo che avevo per continuare i miei studi era ottenere la borsa di studio. Questo sostegno finanziario mi ha permesso di rimodellare la mia vita per proseguire meglio i miei studi universitari. Lavoravo mentre studiavo all’università, con la borsa ho potuto ridurre le ore di lavoro e dedicare più tempo allo studio, al completamento dei miei compiti di valutazione e, soprattutto, alla preparazione degli esami. Un grande peso mi è stato tolto dalle spalle grazie alla borsa di studio DAFI. Questa borsa di studio mi ha davvero concesso una seconda possibilità per raggiungere i miei obiettivi e lavorare al massimo delle mie potenzialità
Attualmente lavoro come education officer in INTERSOS e mi sforzo di non smettere mai di imparare e sviluppare le mie capacità, iscrivendomi e frequentando alcuni corsi e conferenze. Il mio sogno è quello di aiutare gli altri a realizzare il loro sogno. Fare qualcosa di prezioso per gli altri. Più in profondità, voglio vivere libera e aiutare gli altri a vivere liberi e appagati. Inoltre, un altro dei miei sogni più grandi è continuare gli studi e fare un master, che è il percorso migliore per lo sviluppo della carriera e un futuro migliore.
Mi chiamo Abd al-Karim Tawfiq Ahmed. Ho 24 anni e sono cresciuto nel governatorato di Al Dhalea, nello Yemen settentrionale. Sono uno studente di medicina al quarto anno presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Sana’a. Ho scelto medicina perché ho un forte interesse e una passione per la scienza, guidati da un innato desiderio di fare il possibile per aiutare le persone che soffrono. E poi la professione medica è una delle più ambite al mondo, competitiva e rispettabile.
Nel corso dei miei studi ho imparato il significato delle parole impegno, perseveranza e diligenza. La borsa di studio di Fondazione Lavazza mi ha aiutato a superare molte sfide, la copertura delle tasse universitarie in primis, che è stata per me una costante fonte di preoccupazione. Inoltre, la borsa di studio è un sostegno essenziale per le spese quotidiane.
Dopo aver ricevuto la borsa di studio di Lavazza, qualcosa è cambiato nel mio approccio e ora ho una visione più positiva della vita. Ho iniziato a studiare col sorriso e mi rendo conto di quanto sono fortunato ad avere avuto questa opportunità. Mi impegno di più con i miei compagni di corso e chiedo ai docenti ogni volta che c’è qualcosa che non capisco. Fin qui studiare non è stato facile, ma continuo a impegnarmi al massimo e spero tutto vada per il meglio, devo credere che sono in grado di diventare un buon medico!
In passato scherzavo sulla possibilità di diventare medico: oggi sono uno studente di medicina al quarto anno e ho ottenuto una borsa di studio che mi permette di credere in un sogno che si sta realizzando, di lavorare sodo, di potermi vestire bene, di avere le risorse per rendermi presentabile e non mollare mai. La borsa di studio ha acceso in me un rinnovato senso di ottimismo, dopo la laurea vorrei continuare il percorso di studi e intraprendere un master.
Mi chiamo Doa’a. Sono nata in Yemen in una famiglia povera.
Il mio futuro sembrava già scritto: una vita di privazioni, di lotta per la sopravvivenza e di sogni sepolti. Ero solo una bambina e già portavo sulle spalle il peso di un contesto particolarmente complesso per le donne a cui spesso viene negata la possibilità di scegliere.
Poi, un giorno, tutto cambiò con la mia determinazione a non accettare un destino già stabilito. Decisi di studiare ed avere un futuro diverso. Con fatica e sacrifici sono riuscita ad iscrivermi alla facoltà di Odontoiatria. Poi è arrivata la borsa di studio che mi sta permettendo di continuare il mio percorso accademico e di avvicinarmi sempre di più al mio obiettivo: diventare una dentista.
Doa’a è una studentessa che rientra nel nostro progetto “Borse di studio per l’istruzione di giovani yemeniti” finanziato da Fondazione Lavazza. La storia di Doa’a è una storia di resilienza e di speranza. A quasi un decennio dall’inizio del conflitto, il nostro intervento in Yemen non ha garantito solo accesso a cure mediche e beni essenziali o protezione per le persone sopravvissute a violenza. Abbiamo sostenuto anche l’istruzione perchè crediamo che l’unico modo per superare i conflitti sia investire nella formazione delle giovani generazioni.
Wael è apolide da quando l’ufficio anagrafico della cittadina in cui viveva è andata in fiamme durante la guerra civile, e ogni registrazione si è perduta. Apolidi sono i suoi cinque figli: i maschi sono imbianchini, pagati a ore in lire libanesi, un compenso eroso continuamente dall’inflazione. La moglie di Wael conduce un negozietto dove vende prodotti per la casa per conto terzo, ma è malata di tumore, non può permettersi le cure necessarie, non riesce ad andare avanti.
Lina è sempre vissuta in Libano, ma non ha mai avuto la cittadinanza del suo paese. Lavora come colf domestica ad ore, aiuta la famiglia, con quello che guadagna e alcune amicizie è riuscita far studiare due delle sue figlie. Sua madre era libanese, suo padre siriano. Quando le chiediamo cosa facesse, ci risponde: “magia nera, leggeva i fondi di caffè”. Come lei, anche i figli di Lina sono ora apolidi.
Salah, druso, ha un fratello e tre sorelle grandi, ma è l’unico apolide della famiglia perché, quando è nato, suo padre era in carcere; e sua madre, costretta a mantenere cinque figli come lavoratrice domestica, non è riuscita a seguire l’iter burocratico. A causa della sua apolidia, Salah ha potuto frequentare solo i primi anni di scuola (sa leggere e scrivere), non ha patente di guida, è costretto a cambiare lavoro ogni tre mesi perché, finito il periodo di prova, nessuno lo può assumere regolarmente. Dieci anni fa, quando si è dovuto operare al naso, si è fatto ricoverare con la tessera sanitaria del fratello.
Qualche mese fa ha sposato una ragazza marocchina conosciuta su Facebook. Dopo otto anni di messaggini via web, è andato a prenderla all’aeroporto, in arrivo dal Marocco, e si sono sposati immediatamente, già nel tragitto di ritorno. Ora lei, incinta, sta per partorire un bambino che, come figlio di apolide, sarà anche lui privo di cittadinanza.
Esther, 29 anni, è arrivata dall’Etiopia dieci anni fa, in cerca di impiego per aiutare la madre malata. Ha trovato solo lavoretti temporanei come collaboratrice domestica, dormendo nelle case dove faceva le pulizie e dovendo fuggire da datori di lavoro che la molestavano. Per migliorare la sua condizione, ha sposato un garagista libanese, sperando di ottenere così la cittadinanza. Ma il marito non ha mai registrato il matrimonio e ben presto si è rivelato un tossicodipendente (le pillole e la polvere bianca in giro per casa non erano farmaci per il mal di denti, come diceva lui). Per di più spacciava ed era molto violento, soprattutto quando lei si rifiutava di fare da corriere per la droga fuori Beirut (per le donne è più facile, perché non vengono perquisite): una volta è arrivato a rinchiuderla per giorni in una stanza, torturandola con bruciature di sigaretta.
Nonostante ciò, Esther ha avuto da lui due figli, ai quali non sono stati mai risparmiati maltrattamenti e botte. Finché un giorno, quando il marito stava per tirarle addosso un pentolone d’acqua bollente, Esther si è messa a gridare così forte da allarmare i vicini, che hanno chiamato la polizia. Lui è finito in carcere, ma per poco tempo. Un’associazione libanese che sostiene donne sopravvissute a violenza ha offerto rifugio a Esther e ai due bambini, rimasti apolidi, perché la loro nascita non è stata mai registrata.
Ora Esther lavora saltuariamente, con l’aiuto di INTERSOS, da cui riceve assistenza materiale e legale. Ha ancora paura di muoversi liberamente e incontrare il marito violento. Vorrebbe tornare in Etiopia, ma la sua famiglia è stata sterminata durante la guerra civile.
Amara è arrivata a Beirut nel 2012 da Addis Abeba, per lavorare come domestica nelle case dei ricchi libanesi. Come per altre decine di migliaia di lavoratrici immigrate, il suo soggiorno in Libano è inquadrato nella Kafala, un sistema di sponsorizzazione che si trasforma spesso in una forma di schiavitù moderna, conferendo a coloro che vi sono intrappolati uno status giuridico precario che impedisce loro di registrare i propri figli di origine libanese.
Amara ha sposato un tassista libanese e ha avuto tre figli: matrimonio religioso, non registrato ufficialmente, perché qualsiasi donna, per sposarsi in Libano, deve dare prove documentali di essere nubile. E come poteva Amara dimostrare di non essersi già sposata in Etiopia prima di partire? Per questo, benché il padre abbia riconosciuto i tre figli e sposato la madre con rito religioso, non può registrare all’anagrafe i bambini, che sono rimasti apolidi.
Ritratto di Mais Hameed, sfollata dalla zona di Al Zab: “Vivo da 6 anni nel campo di Jeddah, perché non sono stata accolta nella mia zona di origine. La mia famiglia è accusata di affiliazione all’Isis, mio marito è in carcere, e se torno nella nostra zona di origine verrò arrestata, come hanno già fatto, davanti a me, con le mogli di due miei fratelli, quindi non voglio rischiare di tornare indietro. Mia madre ha il cancro, e se tornasse nella nostra zona di origine, verrebbe anche lei arrestata. Non ho mai lasciato la mia zona finché non siamo stati liberati e non c’erano più membri dell’ISIS. L’esercito è arrivato e sono dovuta andare via di casa. Ho iniziato a camminare e ho continuato a camminare, perché le persone che guidavano le auto non avrebbero accettato di prendermi a bordo, fino a quando non sono arrivata al campo di Jeddah 5. Ho quattro figli. Mio figlio maggiore ha 13 anni e lavora a cottimo. La mia seconda figlia ha 11 anni, la terza ha 8 anni e la mia quarta figlia ha 6 anni. Nessuno di loro ha documenti legali. I miei figli non hanno futuro. Prima dell’Isis la vita era bella, non ci preoccupavamo di niente, ma ora siamo stanchi e stiamo cadendo a pezzi”.
Iraq, Baiji. Ritratto di Thaer Khaleel Sahan: “Nel 2014 quando Isis è entrata nella nostra zona, siamo rimasti quattro mesi. Poi siamo andati ad Al-Jazeerah, poi siamo partiti per Ramadi, poi siamo arrivati a Tikrit dove siamo rimasti per un anno e mezzo nel campo. Quando l’area di Baiji è tornata sicura, sono tornato anche io ma ho trovato la nostra casa distrutta e non possiamo permetterci di ricostruirla. La vita è difficile, tutto è difficile, non abbiamo niente per ricostruirla com’era prima quindi la lasciamo così com’è”.
Iraq, Rabia. Ritratto di Khalid Rabash Kanush. “Ho 60 anni. Sono uno dei leader della comunità (mukhtar), un membro del gruppo della comunità per l’advocacy e la pace e il capo dei genitori e degli insegnanti di Rabia. Questa zona è considerata una piccola comunità irachena; quando entri nei negozi Rabia, vedrai curdi, azidi e arabi sunniti e sciiti. Grazie a Dio, siamo uniti. Il 3 agosto 2014 la comunità è stata spostata da Rabia a Baghdad, Erbil e Mosul. Circa 600 sfollati interni sono tornati qui. Anche la maggior parte delle famiglie sfollate nei villaggi vicini sono tornate a Rabia. Hanno ricevuto la maggior parte del sostegno da ONG, come INTERSOS, che hanno fornito documenti legali come nazionalità irachena mancante, carta d’identità, certificato di matrimonio, certificato di nascita, nonché articoli alimentari e non. Grazie al sostegno delle ONG, la comunità ha potuto rompere il recinto e impegnarsi in modo migliore, soprattutto con le donne, migliorando le attività commerciale e l’istruzione”.
Ritratto di Khamis Hsein Salah. “Dopo 5 mesi in un campo, senza lavorare, siamo tornati al villaggio di Mthallath per cercare un lavoro. Lavoriamo nell’agricoltura. La mia casa è stata bruciata e non ho soldi per ricostruirla. Sono ancora un migrante non per la guerra ma per le cattive condizioni di vita. Non c’è modo di guadagnarsi da vivere nel villaggio e siamo nella stessa situazione da anni. Lavoro in questo terreno agricolo per mio cugino, non ho altro supporto. Abbiamo bisogno di stipendi, compensi per le nostre case e un centro sanitario nel villaggio. Non ci sono strade asfaltate nel paese, tutti i 7 km di strade sono in sabbia. Quando mio figlio si ammala, non posso portarlo dal dottore”.